Biografia di Umberto Tozzi

Radio Filger online :)

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Una serata di provincia

Nelle serate di fine autunno il sole tramonta presto e il richiamo delle luci di un locale diventa più attraente. Io, Franco, e Mario, decidemmo che dopo nove ore potevamo abbandonare le quattro pareti dell'ufficio per delle birre e quattro chiacchiere e sciogliere così le tensioni della giornata lavorativa.

Entrammo nel locale discretamente affollato; la luce soffusa creava un'atmosfera perfetta per rilassarsi. Le conversazioni presero vita e, molto probabilmente a causa di una canzone di una cantante che in quel momento andava per la maggiore e che era diffusa in sottofondo nel locale, si finì a parlare di musica.

Franco immergeva i bocconi del suo toast nel piattino di salsa rosa la quale generava un profumo di senape e arancia che si intrecciava con le nostre voci. La conversazione aveva rapidamente abbandonato le considerazioni di carattere generale per approdare sui 'dischi bianchi' di Battisti. Franco e Mario, complici nel culto di quegli album, li possedevano tutti, vinili, ristampe su vinile e su CD compresi e addirittura Franco disse che le riproduzioni su cassetta avevano una qualità incredibile. Io facevo capolino, se così si può dire, in questo universo con l’acquisto di 'Eh già', appena uscì.  Lo misi sul giradischi solo un paio di volte, del tutto incompetente a poter dire qualcosa di interessante.

Mario, con la sua calma contagiosa, iniziò a tessere le lodi di quei capolavori, ribattezzati da lui stessi 'composizioni' anziché semplici canzoni. I testi di Pasquale Panella, incisi nei cosiddetti “dischi bianchi”, erano per lui un'esperienza trascendentale. "Non sono composizioni per tutti", affermava con occhi brillanti, "solo chi ama Lucio profondamente può veramente coglierne l'essenza. Per gli altri, quelli che hanno l’associazione di Battisti con le 'bionde trecce, gli occhi azzurri e poi', quei testi sono una lingua sconosciuta, incomprensibile. Bisogna ascoltarli senza pregiudizi, dimenticando tutto ciò che è venuto prima, solo così potrai assaporarli senza confronti inutili."

La faceva facile. Volevo dirgli che insomma, io compro un disco perché mi regala emozioni, non perché queste me le devo cercare per forza e magari con delle basi di filosofia.

Continuai a rimanere in silenzio. Pur non essendo battistiano, ne riconoscevo l'indiscutibile grandezza. Tuttavia, non amando Lucio in modo diciamo “completo”, mi sentivo estraneo a quel mondo di "incredibile bellezza", come lo definiva Mario. Con la seconda birra, Franco espose la sua teoria sulla fine della partnership Mogol-Battisti, un argomento che, sorprendentemente, resisteva al trascorrere dei decenni.

"La storia di Lucio Battisti giungeva al termine, e il motivo principale era la sua voglia di cambiare. Non si sentiva più appagato dal fatto di dover arrivare ai primi posti in classifica, desiderava nuove sfide, un'evoluzione artistica senz’altro condivisibile”. Le parole di Franco erano accompagnate dal gesto della mano che intingeva toast in quella nella salsa rosa, e poi, dopo un morso, portava a spasso il boccone davanti a me con grandi gesta quasi a dipingere un’invisibile quadro che descriveva la nuova era battistiana.

"Lucio voleva respirare novità. La collaborazione con Mogol era al termine perché cercava quella innovazione, oltre che nella musica, anche nei testi, innovazione che il paroliere non poteva assecondare. Guardate che, Luberti e altri parolieri li avevo scoperti solo leggendo le note di copertina. 'A mano a mano', la canzone di Cocciante, ripresa poi anche da Rino Gaetano, il testo è di Luberti, così come 'Margherita', 'L'alba', 'Quando finisce un amore' e tante altre perle. Notare che Riccardo Cocciante non è etichettato con il marchio Luberti. Lucio, invece, era come se portasse tatuato il marchio Mogol. Mango, nonostante scrivesse canzoni con Mogol e Panella, non aveva il marchio Mogol, e lo stesso valeva per Cocciante, Zucchero e tanti altri che sfuggono a questa etichetta. L'unico a sperimentare questo, chiamiamolo 'problema del doppio cognome' è stato Lucio Battisti; degli altri, sinceramente, non mi viene in mente nessuno. Pensate anche alla coppia Bigazzi-Bella, nessun marchio!"

Da buon tozziano mi sembrava questo il momento per intervenire, se non altro per rimarcare che un marchio di fabbrica pari a Mogol/Battisti era senz’altro il Bigazzi/Tozzi rispetto a Bigazzi/Bella ma persi il momento, come un portiere che in uscita disperata viene facilmente dribblato e guarda il pallone entrare a rete senza poter fare più nulla.

Mario si inserì: "Lucio si era stancato sia artisticamente ma anche sul piano umano. E, soprattutto, aveva questa palla al piede, come l'aveva definita sua moglie in una lettera. Parlo di quelle relazioni che si attaccano come cozze sugli scogli e che è difficile separare”

Franco ripartì, gesticolando ovviamente come un perfetto italiano: 'E le denunce per i confini di casa e tutto il resto, la liquidazione della società... sempre per denaro. E’ stata una forma di vendetta di Mogol, scaricato da Battisti. Lucio voleva essere libero di creare, di cercare nuovi aspetti musicali'. Guardavo i miei colleghi mentre discorrevano animatamente. Le loro voci si fondevano come rombo di una moto che si allontanava veloce lasciandomi solo nel silenzio dei miei pensieri.

Eppure, anche Bigazzi e Tozzi avevano scritto pagine di storia della musica, e anch'essi, a un certo punto, si erano separati e costretti ad inseguire nuovi traguardi professionali in altro modo. Tozzi si era trovato a scrivere e comporre i nuovi album, senza collaborazioni di firma. Aveva chiesto l'aiuto di Mathienson per arrangiamenti e produzione, ma questo non lo aveva favorito nell'esplorare territori musicali inediti. Avevo visto nell’ingaggio del musicista californiano, una scelta prudente; anziché un salto nel vuoto, aveva preferito un "usato sicuro". Erano nati album interessanti come 'Equivocando' e 'Il grido', ma il nuovo percorso non mostrava un "dopo Bigazzi" in maniera netta, lo stacco era stato per me inavvertibile.

Con 'Aria e Cielo', Tozzi aveva cercato una svolta, più che altro per necessità non riuscendo a scrivere testi che lo soddisfacevano per le sue musiche, Chiamò Mogol. Un Mogol che ora mi sembrava, ascoltando i miei colleghi, uno “scarto di Battisti”. Avrebbe potuto creare un filone importante come quello che aveva dato vita con Cocciante? Avrebbe potuto generare brani come 'Cervo a primavera', 'Il mio amico carissimo', 'Celeste nostalgia', 'Passeggiando in bicicletta'? Poteva fare un exploit come “Vita” per Dalla/Morandi?  La risposta era nell’evidenza dei fatti.

Questa conclusione mi arrivò quando accesi la luce e appoggiai le chiavi vicino all’attaccapanni.

Quello che continuava a frullarmi in testa era immaginare come sarebbe stata la carriera di Tozzi se il connubio con Bigazzi non si fosse mai interrotto. E riguardo a "Aria&Cielo"... se a stendere le parole ci fosse stato ancora una volta Bigazzi, che testo sarebbe uscito?

A darmi cattive idee fu senz’altro un eccesso di luppolo, perché mi dissi che una risposta poteva arrivarmi dall’intelligenza artificiale. Se era possibile ascoltare un brano inedito dei Beatles con la voce di Lennon nel 2023, si poteva creare un testo inedito “alla Bigazzi”?  Era possibile sfidare il destino e fargli prendere un’altra strada? Si poteva deviare quelle pallottole che avevano fermato artisti come Van Gogh e John Lennon? In altre parole, si poteva far scorrere il tempo all’indietro, come un nastro registrato, fino al punto che più interessava?

Aprii il notebook, che stava sul ripiano insieme ad un libro di Kawabata, Bellezza e tristezza, che avevo iniziato a leggere e un pacchetto di sigarette. Ne accesi una e entrai nel portale dell’Intelligenza Artificiale. Posi la domanda:

Puoi cambiare un testo di una canzone?

Intelligenza Artificiale: - Certamente, posso aiutarti a riscrivere il testo di una canzone. Tuttavia, hai un testo specifico in mente o desideri creare uno completamente nuovo? Fammi sapere quale sia la tua preferenza o se hai già alcune idee su argomenti o temi che vorresti includere nel testo rielaborato-

Risposi: Questo è un testo scritto da Mogol. Puoi riscriverlo come se fosse scritto da Bigazzi mettendolo in rima e mantenendo il titolo di “Aria e Cielo”?

Intelligenza Artificiale: -Certamente, ecco una possibile rielaborazione del testo della canzone con uno stile immaginario ispirato a Giancarlo Bigazzi, mantenendo il titolo "Aria e Cielo" (tra parentesi il testo originale):

 

Aria e cielo, sì che ci scivolo, (Io ci sto sì che ci sto)

nel respiro profondo, tra l'azzurro un volo. (dentro mi butto sia bello o brutto il mare)

Cielo a trame vapore in fili di lana, (Io ci sto non so dire di no)

sospesi da una nota lontana. (a costo di affogare)

Io respiro questa blu brillante, (io mi do a volte mi do)

un frutto la vita una danza vibrante. (ho questo vizio la libertà mi accende)

Non nego l'orizzonte e mi abbandono, (io lo sò che pago tanto lo so)

Nel vuoto a perdere e ritrovare un suono. (l’aria mi prende mi porta in alto)

Aria -nel blu di una leggera melodia (Cielo – Azzurro grande trasparente il cielo)

nuvole terse in righe come poesia. (come l’anima grande del mondo)

 Cielo – azzurro, infinito respiro il cielo (Aria – Pulita e tersa mi attraversa l’aria)

Foglie volano nell’aria è come vento il pensiero. (la sostanza vitale che nutre il mio amore per te)

Sì, per te, sì di più, di più,

Lascio che il vento porti via l'addio. (Eh sì mi và si che mi và)

Rinasco in profumo saprai che sarò io. (la vita è un frutto e io ci stò mi butto)

Cielo azzurro, come l'anima serena, il cuore batte al ritmo di un motore. (si che ci sto non so dire di no anche a costo di pentirmi)

In questo viaggio senza paure, (non so arrestarmi né limitarmi)

senza zavorra, la firma in colore, la mano dell'autore. (forse è sbagliato ma sono sparpagliato)

Aria e cielo, mi sorvolano, (si lo so che pago tanto lo so)

note d'amore nell'aria si accendono (l’aria mi prende mi porta in alto)

Sì, per te, sì di più, di più.

Intelligenza Artificiale: Spero il testo rispecchi lo stile caratteristico di Giancarlo Bigazzi. Fammi sapere se c'è altro con cui posso aiutarti! L’Intelligenza Artificiale può commettere errori. Considera di verificare le informazioni importanti.

 

Chiusi il notebook. Ero sorpreso e allo stesso tempo pentito, quasi come Psiche quando aprì il vaso di Prosperina e si rese conto di aver disobbedito agli dei.

Questa serata poteva spegnersi così come la luce azzurra del computer in arresto che illuminava le lenti dei miei occhiali, come la luce della mia stanza.

Il passato era qualcosa non si poteva cambiare. Era solo possibile fare suggestive ipotesi, iconici film come Ritorno al futuro, realtà ipotetiche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale aggiungendo due birre medie, forse tre. Brandelli di mozziconi nel portacenere tra la nebbia del soggiorno. Entrato nella doccia guardai ai miei piedi l’acqua mista a schiuma che, dopo avermi investito con il suo tepore rilassante, lentamente spariva nello scarico. Come scrisse Kawabata: sia l’acqua che il tempo non fluiscono mai all’indietro.


31.12.2023 Stefano_Dalto


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La tesina di M.P.

Il mondo di Mario comprendeva due insiemi ben definiti: un macrocosmo che si materializzava dalla radio e dalla televisione quando erano accese e un microcosmo fatto dalle relazioni in famiglia oppure a scuola. A tredici anni la complessità della vita quotidiana poteva essere così schematizzata. Era il 1978 e, se accendeva la radio, poteva ascoltare le canzoni diffuse da una miriade di emittenti private. Anni dopo capì che quel momento, quello che stava succedendo allora nel macrocosmo, sarebbe diventato una frase di un brano che avrebbe imparato a memoria: “…e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra…”. A “a modo suo” Lucio Dalla aveva scritto questa lettera/canzone destinata a divenire un tormentone da inizio inverno, ogni anno, insieme ai brani di Maria Carey e George Michael e John Lennon. Scritta in quel 1978 (il disco “Lucio Dalla” che contiene “L’anno che verrà” fu pubblicato nel febbraio del 1979), risente del clima cupo dei cosiddetti “anni di piombo”. Il 9 marzo 1978 a Torino iniziò il processo alle Brigate Rosse nella caserma Lamarmora. Lungo il perimetro della caserma furono messi sacchi di sabbia e su questi le mitragliatrici a difesa di quello che si stava svolgendo all’interno. La radio, come la TV in quei mesi di primavera, non faceva uscire notizie divertenti, Il 16 marzo ci fu l’episodio di via Fani, l’attacco al cuore dello Stato. Lo Stato era la Democrazia Cristiana e la Democrazia Cristiana era Aldo Moro e Aldo Moro era ad un passo dal compiere quello che Berlinguer aveva definito “il compromesso storico”, un’alleanza tra la DC e PCI, un’alleanza tra la borghesia e la classe operaia.

I movimenti dell’estrema sinistra vedevano altro: una sottomissione delle forze di sinistra alla mano lunga dell’imperialismo americano di cui l’Italia, tramite la DC, era una succursale; la lotta armata era l’unica soluzione per evitare questo. Il 9 maggio tutto questa visione finì, o perlomeno fu l’inizio della fine. Nel Paese il cambiamento o la voglia di esso era forte nell’aria. Un’aria pesante, pesante come piombo, che doveva essere cambiata. C’era bisogno di sentire aria di festa, di campane che “dan” e “dabadan” l’annunciassero. Il cambiamento di Mario arrivò dal suo microcosmo, dal garage del suo microcosmo. Suo padre cambiò macchina. La 128 verde che lo aveva visto dormire nel sedile posteriore nei lunghi viaggi verso il mare, andava sostituita. Fece i suoi ultimi chilometri verso la concessionaria e venne lasciata lì. Non seppero più nulla del suo destino: se ci fosse stato qualcuno a darle una seconda vita oppure se la sua corsa fosse finita per sempre come quella bianca delle BR che frenando di colpo fece tamponare la 130 di Moro. La nuova auto non si chiamava con un numero ma con un nome e già questo era per lui un cambiamento. Si chiamava Ritmo e aveva i paraurti di plastica e già questo era per lui un cambiamento: niente più impronte come quando bambino, girando intorno alla macchina di suo padre, lasciava i segni delle mani sui paraurti cromati. La Ritmo aveva debuttato al Salone di Torino nell’aprile del 1978, durante quei 55 giorni nei quali l’Italia aveva il fiato sospeso. Aveva i paraurti di plastica ed era costruita dai robot, anche questo un cambiamento, robot come quelli che, sempre nell’aprile del 1978, erano apparsi nel macrocosmo televisivo a difendere l’umanità dal male. I robot della Fiat toglievano invece i lavori peggiori agli operai, in quel microcosmo dove il male era la catena di montaggio e un uomo alla catena valeva come un altro, svilendone la personalità, poveri cristi che arrivavano in fabbrica prendendo il tram. Era lì che aveva attecchito la protesta dieci anni prima e ancora non era terminata. La nuova macchina aveva i paraurti di plastica, era costruita dai robot e nella plancia c’era lo spazio per l’autoradio. Suo padre l’installò poco dopo che gli venne consegnata l’auto. Era giugno, la scuola era finita e suo padre lo chiamò, lo fece salire sulla nuova auto e accese l’autoradio. A giugno, quando accendevi la radio usciva Umberto Tozzi. “canterò la pioggia perché venga giù, il vento che si calmi un po’, il cielo perché sia più blu”. Questa frase rimase. Non ne capiva il senso e forse rimase per quello. Rimase il fascino per le cose dette e recepite a varie fasce di livello, rimase perché conteneva quello che sarebbe diventato un principio filosofico, uscito un giorno dall’autoradio. Rimase negli anni del classico, rimase quando arrivò l’università. Arrivarono anche gli album bianchi di Battisti. Mentre Mogol scriveva per Tozzi “…È stare un giorno al sole. Un mare azzurro con le vele”, in “Cosa succederà alla ragazza” Panella faceva cantare a Battisti: “io ti vorrei incontrare ma non lo vorrei”. Fu la scintilla che lo portò tempo dopo a consegnare al relatore la bozza della tesi in Filosofia che aveva per titolo “Il paradosso di Moore nella musica leggera”. Ma nel 1978 era tutto ancora lontano, una distanza quasi come dalla Terra alla Luna, una distanza che l’uomo aveva però percorso il decennio prima. Il futuro lo si poteva immaginare. E Mario immaginava che si, nella faccia nascosta della luna, poteva esserci veramente la base segreta di Vega, perché niente era ancora chiaro, niente era afferrabile con sicurezza proprio come “una saponetta che, scivolando, non c’è”.


11.12.2023, by Stefano Dalto


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Le Polaroid di Stella

Tutto era iniziato da una richiesta di Stella, la figlia quindicenne, fan dei Queen. Gli chiese se poteva acquistare la discografia della band inglese che veniva offerta in edicola in uscite quindicinali: un anno e mezzo per completarla, 650 euro la spesa complessiva. Convenne che, a fronte di un possibile altro epilogo, ad esempio che diventasse una fan di Sfera Ebbasta o altre derive trap di profondità similari, la richiesta risultasse congrua. Acquistare vinili, un’operazione cessata all’inizio degli anni 90, fu il primo passo. Nei mercatini dell’antiquariato successe che una domenica di fine estate si era fermato presso la bancarella dei rivenditori di dischi. Questa volta però, invece di curiosare soltanto, sfogliando il raccoglitore, si soffermò su due Lp di Battisti. Il primo era “La batteria, il contrabbasso, ecc..” con l’iconica copertina di Cesare e Wanda Monti, che avrebbero ritratto anni dopo anche l’idolo musicale dei suoi quindici anni nel cavalcavia della stazione di Porta Garibaldi a Milano. L’album si sarebbe chiamato “Invisibile”, era il 1987 e il vinile si avviava al tramonto. Nella copertina del 1975, Battisti era immortalato mentre, di corsa, attraversava una pozzanghera, artificialmente resa abbondante con una copiosa innaffiata, generando schizzi d’acqua sporca che rimasero per sempre sospesi in quella iconica foto. Battisti, rimasto a lungo con i vestiti inzuppati, si beccò la febbre il giorno dopo. L’altro Lp, che attirò la sua attenzione era “Una giornata uggiosa”, ultimo capitolo della coppia Battisti-Mogol, che includeva quel capolavoro de “Il nastro rosa”. Un brano questo che gli era sempre piaciuto. Uscito nel 1980, venne ascoltato più volte in un periodo dove l’aggettivo rosa nei titoli delle canzoni sembrava essere in voga. Ricordava di aver letto che l’assolo di chitarra elettrica era stato registrato a Londra nel giro di un’ora: Phil Palmer arrivò in studio una mattina, mise le cuffie, ascoltò la base, suonò la sua parte. Poi salutò tutti perché aveva un appuntamento dal dentista prima di mezzogiorno: buona la prima che venne affidata così alla storia. Anche quella copertina aveva la sua storia. Chiuse le registrazioni nel dicembre del 1979, il disco sarebbe uscito il 1° febbraio successivo. Un mese, quello di gennaio, per preparare la copertina e mandare tutto in stampa. Ma il fotografo a dispetto del cielo plumbeo non riuscì ad incappare in nessun giorno di pioggia in modo da adattare la foto con il titolo dell’LP. Così, noleggiò un’autobotte, bagnò la strada e marciapiede, chiese al suo assistente di scendere in strada con un ombrello e fece la foto, ancora nei pressi di un cavalcavia, ancora a Milano. Poi, graficamente, mise la pioggia, una serie di trattini rossi, arancio e neri. Nelle note della band, in alcuni brani, notò con sorpresa che al basso era indicato Les Hurdle. Sorrise perché aveva ricostruito una parte dell’agenda di lavoro del bassista statunitense: sapeva ora quello che era stato il suo ultimo lavoro del 1979 e quello che sarebbe stato il primo del 1980. Prese quei due LP. Il secondo passo fu considerare l’acquisto di un nuovo impianto stereo. Il vecchio compatto della Philips, ricevuto in regalo nel settembre del 1980 come controfferta unilaterale alle reiterate richieste di un ciclomotore, non era più in funzione. Sfruttatissimo, aveva fatto il suo dovere diffondendo le composizioni di Bigazzi/Tozzi ad un volume appena al di sotto della soglia di distorsione sia nella sua stanza, sia, nella bella stagione, nelle pertinenze dei vicini. Ma quale giradischi prendere? Scartata l’ipotesi di un acquisto online per evitare reclami per eventuali malfunzionamenti in una modalità che escludeva il contatto di persona, decise di andare in un centro commerciale. Mise gli occhi su un giradischi Marley, un marchio giamaicano creato dal figlio di Bob, che proponeva una apparecchiatura con materiali sostenibili: struttura in legno e parti in plastica riciclata. Poteva essere una buona idea e mentre attendeva che qualche commesso si premurasse di avvicinarlo, consultò sul telefonino caratteristiche e recensioni. Ora, siccome quello che aveva letto gli aveva fatto insorgere qualche dubbio e i commessi sembravano in tutt’altro indaffarati rispetto alla mission del customer care anche se in quel momento non c’era nessuno oltre a lui, decise di uscire così com’era entrato: a mani vuote. Se doveva prendersi un impianto decente era il caso di rivolgersi ad un negozio specializzato. Lo trovò fuori provincia, a mezz’ora di strada dopo una ricerca su Google maps. Scrisse una mail. Chiese un’offerta per un giradischi con relativo sistema di diffusione fissando un budget cap a 600 euro. A stretto girò arrivò la risposta con il preventivo: 650 euro un impianto decente, 530 un impianto con caratteristiche minori. Fu così che si arrivò all’epilogo: andò a prenderlo, lo sistemò sull’apposito mobiletto, e iniziò a connettere tutti i collegamenti. Le casse trovarono posto tra i ripiani della libreria e si concentrò sul bilanciamento del braccio del giradischi con una accuratezza da farmacista d’altri tempi. Venne il momento della prova. Il candidato fu individuato nel primo disco acquistato oltre quarant’anni fa: il “Poste ‘80” di Umberto Tozzi. Lo mise sul piatto e iniziò quella magia per la quale l’ascolto non era rilegato ad un sottofondo mentre si faceva altro, ma l’attenzione alle canzoni divenne assoluta, quasi liturgica un ascolto che chiede tempo, come per la lettura di un libro. Ritrovò fruscii dimenticati e parole mai scordate: incise a suo tempo nel marmo bianco dell’adolescenza, risultarono ora ancora intatte e leggibili come sottotitoli generati dalla puntina che apparivano invisibili davanti a sé. Al termine dell’ascolto ripose il disco nella custodia e nel ripetere un gesto fatto mille volte, si accorse che c’era qualcosa che non funzionava.

L’impianto era ottimo, la voce insostituibile, musica suonata da una dream band, ma... Ci pensò su e poi capì cos’era che non andava. Dunque, le tematiche. Sì, le tematiche affrontate nei testi. Ora la disoccupazione, i problemi con la compagna, il triangolo con l’amante, la condizione disagiata dove crescere, l’uso di droghe, la rapina con la pistola, il carcere, l’alcolismo, l’incidente in macchina, lei che muore tragicamente, erano tutte situazioni facilmente riscontrabili in un qualsiasi poliziesco degli anni 70 girato tra Milano e la campagna. Con ovvio contorno di pantaloni a zampa d’elefante, baffi, sigarette come noccioline e Alfa Romeo in divisa grigioverde. Tutto questo era emerso come un qualcosa di diverso, che prima non c’era, o se c’era non era così evidente. In fondo quel lavoro discografico era nato e vissuto nel clima cupo che ancora si viveva nel 1980. Mentre il “Poste ‘80” veniva registrato a Monaco, a gennaio era stato assassinato Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica e a febbraio Vittorio Bachelet. A maggio, quando il disco uscì, venne assassinato Walter Tobagi e mentre quelle canzoni erano portate in tournée, a Bologna il 2 agosto, avvenne la strage alla stazione. Si era quindi verificata la situazione che le maggior parte di quelle canzoni scritte in quel periodo, non viaggiasse più parallelamente con il tempo attuale dell’ascolto. E paradossalmente il brano che sembrava funzionare meglio ora era la hit, quello dove non si raccontava nulla, dove tutto rimaneva sospeso nel classico nonsense di impronta bigazziana, nei flash raccontati con parole ricercate per il loro suono, come l’utilizzo dell’allitterazione, qui già nel titolo. Gli rimase quella sorta di disappunto mentre il “Poste ’80” prendeva il suo posto tra “Gloria” e “in concerto” nel ripiano sottostante: il giradischi come macchina del tempo funzionava quindi con questi limiti che faceva emergere? Ed era dunque destinato, per evitare questa sensazione, a fare la stessa fine della Instax di sua figlia Stella, una riesumazione della Polaroid ma che ora riposava, dopo un breve utilizzo, in qualche parte della casa? E avrebbe affascinato una quindicenne il giradischi, una tecnologia per lei nuova, un “nuovo antico” verrebbe da dire? Stava facendo queste riflessioni quando arrivò una notifica su telefono da parte di app di e-commerce: “Breakfast in America” originale del 1979 dei Supertramp, trovato in condizioni EX+, era stato spedito dall’Inghilterra. Osservò sua figlia mentre ora fissava ora il suo disco della Band girare. Si convinse che la macchina del tempo avrebbe funzionato ancora, anche come catalizzatore di dischi altrui. Dischi scaduti allo status di meri oggetti che altri non volevano più e per qualche motivo, finiti in mani di qualcuno che voleva disfarsene. Una cosa era certa: il corpus dei vinili di Umberto avrebbe avuto ora una cornice più adeguata. In fondo era la casa di una persona con l’indole del collezionista e la nuova generazione che abitava con lui, stava promettendo bene.


26.11.2023 by Stefano Dalto Foto di Domenico Lo Turco


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evaeva
PRIMA O POI DI FOLLIA SCOPPIERA' MEZZA UMANITA'

“Prima o poi di follia scoppierà mezza umanità, su di noi stormi di nucleari avvoltoi”. Con questo incipit, nel 1982, Umberto Tozzi e Giancarlo Bigazzi misero in parole e musica il voler esorcizzare la paura di un possibile olocausto nucleare.  Si era ancora nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda ed il mondo era convenzionalmente diviso in due blocchi, tra Est ed Ovest.  Anche se il disgelo sarebbe arrivato da lì a qualche anno, il rischio di un conflitto atomico era ancora e ben presente nella vita di tutti i giorni e faceva spesso capolino nella vita di tutti i giorni, non solo attraverso le notizie che arrivavano dai TG ma anche attraverso il cinema. Si pensi ad esempio a film che hanno fatto epoca come The Day After, Il Giorno Dopo oppure War Games, Giochi di Guerra, entrambi del 1983. Ma anche attraverso la musica,

E così l'atomica entra anche nel testo di un brano pop, scritto per dominare le classifiche ed accompagnare gli italiani durante l'estate di quell'anno. Una canzone d'amore, “alla Tozzi”, con un ritornello facile da memorizzare e canticchiare, ma sullo sfondo un argomento che di leggero ha decisamente poco. La scelta di tematiche più profonde, sarà in realtà il filo conduttore per tutti i brani inclusi nell'album omonimo. Cito il nostro Stefano Dalto per ricordare che “nasce così un album raggruppato attorno a tematiche sociali che partendo dalle difficoltà individuali di affermazione sociale (La Testa sui binari, Faccia d'angelo), alle difficoltà della relazione di coppia (Lo stare insieme, Chiuso , Disprezzo), all'arrivismo e al consumismo (Isola nel sole e Himalaya), traccia delle speranze e offre una via d'uscita (Eva).

Con la caduta del muro di Berlino, e la conseguente fine della Guerra Fredda, l'umanità sembrava destinata a vivere un lungo periodo di pace tra i popoli e le nazioni. In realtà, proprio da quel momento in poi, inizieranno una serie di guerre che si susseguono senza sosta e che in alcuni casi, per vicinanza (Jugoslavia) o per alleanze (Iraq, Afghanistan), vedono l'Italia direttamente o indirettamente coinvolta. Nonostante questo però, il rischio di un conflitto nucleare si allontana dai pensieri dell'opinione pubblica, per quanto il pianeta diventa sempre più un deposito di armi atomiche con nuovi paesi che si aggiungono agli USA e alla Russia come detentori di armi distruttive. Bisognerà aspettare l'inizio del 2022, ovvero a 40 anni dal brano Eva di Tozzi, per tornare a sentir parlare, per di più con una stucchevole leggerezza e faciloneria, di un possibile conflitto armato con uso di armi nucleari. Nella realtà dei fatti, con lo scoppio della guerra in Ucraina ed il diretto coinvolgimento di Russia e indiretto coinvolgimento di Stati Uniti ed Europa, il rischio è molto concreto. Dall'anno della sua istituzione (1947) il Doomsday Clock, conosciuto in Italia come l'Orologio dell'Apocalisse, non è mai stato così vicino alla mezzanotte.

Adesso stiamo per lasciarci alle spalle il 2022 e stiamo per iniziare il 2023. Probabilmente nessuno di noi pensava di tornare ad ascoltare Eva con questo scenario a distanza di 40 anni dalla sua pubblicazione. Vogliamo comunque credere in un futuro dove il genere umano capisca finalmente che abitiamo tutti in appartamenti dello stesso condominio. Che nessuno può salvarsi da solo, vale per gli individui come per gli stati. Speriamo che il 2023 riporti la pace, in Ucraina ed in tutti i teatri di guerra, che il nuovo anno porti armonia tra i popoli e buon senso in chi prende decisioni importanti. Vogliamo continuare a cantare Eva per altri 40 anni e oltre.

Buon anno nuovo a tutti noi!


1.12.2023, Domenico (Immagine elaborata da Stefano_D)

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LASCIA CHE SIA

Ogni calciatore sa che nelle partite c’è un muro invisibile chiamato fuorigioco, oltre il quale ogni azione perde la sua validità. Il muro invisibile per Bigazzi&Tozzi era noto: scavalcare quella barriera voleva dire entrare in un settore di appannaggio del cantautorato, una sorta di casta di calciatori che ben si guardavano dallo scendere in campo in tornei quali Sanremo, Festivalbar nonché certi spettacoli destinati ad un pubblico di massa, quasi fosse un girone Interregionale, loro che giocavano in Serie A e nelle coppe europee.

Va da sé che la produzione di Bigazzi&Tozzi ha spesso trattato tematiche sociali, ma avendo avuto successo con brani che non trattavano questi argomenti, la credibilità rimase compromessa. I marchi, nei prodotti, hanno determinato rigide barriere, invisibili ma altrettanto concrete: Tavernello potrebbe produrre il miglior spumante in bottiglia ma venderlo con quel marchio sarebbe un suicidio commerciale.

Bigazzi&Tozzi hanno provato nel 1987, a Sanremo (finora snobbato da Umberto), a proporre qualcosa che andasse oltre il “cuore/amore” nei testi, raggiungendo un successo solido, benchè condito da una partecipazione corale con Morandi e Ruggeri che, ripartendo la responsabilità individuale ad un terzo ciascuno, rendeva il tutto plausibile e costituiva una protezione da eventuali critiche individuali. In fondo erano gli anni di Do they Know it’s Chrismas? (Band Aid -1984) e We are the world (USA for Africa - 1985): il solco sulla neve era stato tracciato e la direzione nota e sicura.

Ma quando Umberto si presentò da solo (Gli altri siamo noi – CGD East West 1991), l’attacco da parte di alcuni critici fu spietato. “A quarant’anni Tozzi scopre gli altri” fu il fischio con cartellino rosso dalle pagine de La Repubblica da parte di Gino Castaldo nelle vesti di un arbitro “con un bidone di immondizia al posto del cuore”. Tuttavia Umberto uscì a testa alta da quella edizione: considerato il vincitore morale  della rassegna, si portò a casa il premio Recanati (in fondo Leopardi né Le Ricordanze quando scrive: “Della rana rimota alla campagna… usa l’allitterazione per dare un suono alle parole, cifra stilistica costante di Bigazzi&Tozzi accentuata nel periodo 79/80: basti pensare ai soli titoli, da Qualcosa qualcuno a Stella Stai, da Mamma Maremma a Dimmi di no), per la frase: “i muri vanno giù al soffio di un’idea, Allah come Gesù in Chiesa o dentro una Moschea”. Sono passati 40 anni da quell’album, da quel brano e da quel monito offerto come metafora. Allora fu facile assoggettare le immagini di due anni prima quando il muro di Berlino venne rimosso e la folla di tedeschi festanti e di nuovo uniti divenne la notizia dell’anno. Oggi purtroppo, perché si tratta di costruzione e non demolizione, altre immagini andranno ad innestarsi a quelle ormai d’archivio: la Polonia costruirà un muro di oltre 100 chilometri sul confine con la Bielorussia per respingere gli altri, così come fece l’Ungheria sul confine con la Serbia nel 2015.

L’album, che vendette in Italia quasi 200mila copie, fu un successo anche in Francia e pose le basi per un tour europeo ricco di presenze e consensi. Tuttavia, c’è una parte di fans che guarda a questo album con lo stesso sentimento che poco più vent’anni prima, i fans dei Beatles accolsero Leti t be.  L’album dei Fab Four uscì postumo in quanto un mese dell’uscita, venne ufficializzato lo scioglimento del gruppo. Se la coppia Bigazzi&Tozzi avevano spesso guardato ai lavori dei Beatles per ispirarsi (il Nostro dichiarò spesso di essere un fan di McCartney arrivando anche a fare ipotetici parallelismi spazio-temporali che portavano a 5 membri la composizione del gruppo di Liverpool), ora sono i fans di Umberto, con la copertina de “Gli altri siamo noi” in mano che guardano a Leti t be. Il motivo è presto spiegato: l’album uscì postumo. Anche se l’ufficializzazione della rottura tra Bigazzi e Tozzi avvenne tempo dopo, la rottura venne mentre l’album era in preparazione. La vicenda che determinò la rottura è nota e portò quasi immediatamente alla cessazione della collaborazione dopo 16 anni. Alla presentazione dell’album Umberto dichiarò che alcuni brani (messi in coda nella scaletta del disco) erano una specie di regalo ai fans storici. In realtà, i brani non avevano trovato posto negli album Gloria e Poste ’80 e in quelli successivi in quanto vennero giudicati “al di fuori della linea editoriale” e, rimasti nel cassetto, ora costituivano l’adeguato compromesso per chiudere l’album. “Gli altri siamo noi” nel tempo ha assunto questa sfumatura ibrida, un termine di per sé positivo nel mondo anglosassone in quanto espressione di qualcosa di superiore al normale ma, trovarci delle positività è francamente difficile. Verrebbe voglia di tornare indietro e convincerli a riprendersi, a gridare loro “Get Back”. Ma la Storia è andata diversamente e noi fans di B&T abbiamo dovuto accettare quanto accaduto: un sentimento adagiato sulle note di “Let it be”.


Stefano_D 1.11.2021

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