Non eravamo sicuramente un gruppo da Night, ma secondo chi
ci fece la proposta, eravamo talmente bravi che non avremmo avuto problemi.
Secondo me si sbagliava.
Sto parlando del 1970 più o meno. Eravamo il gruppo di Franco Tozzi, fratello
maggiore di Umberto, gli “OFF SOUND”: Mario Bosio: organo Hammond (pesava una
tonnellata, non Mario, l’Hammond!) Roberto Cohen: batteria, Umberto Tozzi:
chitarra e voce, Guido Guglielminetti: basso.
Il nostro repertorio abituale girava intorno ai Beatles principalmente, poi
Three dog night, Rod Argent, Crosby Stills Nash and Young, Bee Gees, Brian
Auger ecc. Tutta roba che con il Night non c’entrava quasi niente. Le uniche
cose che noi definivamo “da Night” erano: Brasil e Summertime. Un po’ poco
direi! Io proprio non ricordo chi procurò questo contratto, forse Roberto, un
po’ in stile “Blues Brothers” spacciando il nostro per un gruppo in grado di
intrattenere la spettabile clientela di un Night club per più di tre ore. Ma
quando mai!!! Comunque andammo. Peccato non ricordi come si chiamava il Night
club, magari c’è ancora.
Il posto era immerso nella nebbia della profonda Brianza, intorno, oltre alla
nebbia stessa non c’era nulla. Credo che tutti i lavoratori del Night, forse
anche le signorine, risiedessero lì. Sicuramente noi sì. Il nostro impegno
sarebbe stato per quindici giorni.
“E ora che cazzo ci facciamo qui per quindici giorni?”
Voi non potete immaginare che cosa fosse quel posto, vorrei essere uno
scrittore per potervelo descrivere, non lo sono quindi dovrete lavorare molto
di fantasia, tenete presente che nella realtà era molto peggio di quanto
riuscirò a descrivere.
Periferia di Milano, dove non è più città ma non è ancora campagna, dove “...le
fabbriche non mettiamole qua, è troppo triste, poi nessuno viene più a laurà, e
quelli che ci vengono poi si suicidano..” La nebbia della notte spariva verso
le undici del mattino e quella del pomeriggio/sera/notte, saliva alle 11.15.
In quel quarto d’ora di luce purtroppo si vedeva bene il posto in cui stavi,
perciò pregavi tornasse presto la nebbia a nascondere tutto!!!
Noi arrivammo col furgone da Torino verso le 11.00. Non fu facile trovare quel
posto, stiamo parlando dell’era “pre-tomtom”, ma comunque nessun navigatore ci
avrebbe mai portato lì. Abbiamo chiesto in qualche bar, strada facendo, per
fortuna lo conoscevano tutti!! Quindi dopo un po’ di tentativi lo abbiamo
trovato.
Simpatico il proprietario!!! Ci informò subito circa le regole severissime che
vigevano in quel posticino: Non potevamo avere contatti “...di nessun tipo” con
gli altri lavoratori del Night, soprattutto con le signorine
naturalmente, ma neanche con i camerieri!! E non avremmo potuto portare
nessuno. Sai che disgrazia! E chi mai avrebbe avuto il coraggio di portare
qualcuno in un posto del genere!
Ci assegnò una stanza con quattro letti e ci mostrò il “LOCALE” come lo
chiamava lui, maiuscolo!!! Bene...che dire? Una cantina, con quelle poltroncine
orribili a forma di poltroncine da Night alcune rosse altre blu, Il pavimento
era appiccicoso in modo imbarazzante. Io chiesi sottovoce a Roberto, il più
grande di noi, come mai il pavimento fosse così appiccicoso, ma lui mi
disse:”...lascia perdere”.
Ora sono grande e ancora non so perché fosse appiccicoso, ma non lo voglio più
sapere.
Per fortuna il palco sul quale avremmo piazzato gli strumenti non era troppo
piccolo e ci permetteva di sistemarli in modo adeguato!! Peccato che la scala
per arrivarci fosse strettissima e portare giù gli strumenti fu un’impresa
estrema. Avremmo voluto uccidere Mario e suonare in tre, ma ci fece pena, anche
perché aveva fatto un sacco di debiti per comprarsi l’Hammond che costava
tanti soldi (naturalmente i debiti erano dei genitori, ma non era comunque un
buon motivo per ucciderlo, o forse si?).
Un imperativo del posto era: non girare assolutamente per il “LOCALE” nelle
pause “...mi raccomando brevi”. Dovevamo stare dietro al palco, il più
possibile nascosti alla vista.
Iniziavamo a suonare verso le 10.00 mi pare, e continuavamo fino alle 2/3
del mattino. Superato un primo momento di imbarazzo dovuto più che altro ai
volumi, suonavamo troppo forte e fummo subito minacciati dal simpatico
proprietario, nessuno si accorse mai che facevamo sempre praticamente gli
stessi 10/11 pezzi in modi diversi, Umberto cantava in perfetto inglese da
Night, cioè quella lingua finta che non dice assolutamente nulla ma che
dell’inglese imita il suono, un po’ come fa Celentano ancora oggi, Roberto alla
batteria non faceva altro che spazzolare il rullante ed io con i toni chiusi
facevo la parodia del walking bass con note scelte a caso di volta in volta.
I signori che frequentavano il prestigioso LOCALE non credo si siano mai
accorti che c’era un gruppo che suonava, quindi mai nessuno si è lamentato.
Dal palchetto in cui stavamo noi a suonare si vedeva solo la piccola pista
rotonda sulla quale qualche volta capitava ci fosse un anziano ragioniere, un
metro e sessanta per un metro e sessanta abbarbicato intorno ad una signorina
vestita poco e molto sorridente. Intorno alla pista c’era la penombra, per cui
non ho mai capito se oltre all’occasionale ragioniere ci fosse mai qualcun
altro in quel Night club.
L’odore è la cosa che non dimenticherò mai! Era Champagne (si fa per dire)
misto a moquette sporca di cane bagnato e sudore di vecchio con l’alitosi. Spero
di aver reso l’idea. Quella era una cripta, altro che “LOCALE”, lì l’aria non
entrava neanche avesse voluto offrire una bottiglia a tutti quanti!
Normalmente finito di suonare e saliti in camera, perché solo quello potevamo
fare, ci facevamo un pokerino prima di dormire e si facevano quasi sempre le
5/6 del mattino. Il grosso problema erano i pomeriggi. La cripta ( Il locale)
era chiusa, quindi non si poteva suonare, lì attorno non c’era niente oltre la
nebbia, quindi non facevamo altro che aspettare la sera. Finché un giorno….
A parte quanto ho scritto finora non ricordo nient’altro di quel periodo; come
fosse la camera in cui dormivamo, dove mangiassimo cosa, non lo so più.
Il posto era una casa di un paio di piani credo, ma a parte la cantina, pardon
“IL LOCALE” non ricordo come fosse fatta dentro. So che fuori aveva un cortile
abbastanza grande, cintato e chiuso da un cancello con le punte e questo lo
ricordo molto bene!
Era da una settimana che eravamo lì. Ormai non ci parlavamo neanche più da quanto
eravamo abbruttiti, secondo il nostro orologio biologico era passato già un
mese, ormai pensavamo che da lì non ce ne saremmo andati mai più perché in
realtà eravamo prigionieri, oppure perché eravamo morti e quello era il
Purgatorio.
Quel giorno usciti in cortile scoprimmo che c’era il sole. Fermi tutti! C’era
il sole è un’espressione un po’ forte, diciamo che la nebbia si era diradata un
po’ e c’era una strana luminescenza che faceva pensare che il sole da qualche
parte ci fosse ancora.
Ma questo bastò per ridarci un po’ di entusiasmo e come premio per il nostro
ritrovato buonumore trovammo, in un angolo, una palla.
Io non lo so se chi legge può rendersi conto di quanto quella scoperta ci
riempì di entusiasmo, in un attimo dimenticammo tutto lo squallore che ci
circondava.
Due contro due, i giubbotti a terra a delimitare una porta unica e via!!!
Do il primo calcio, fui proprio io, lo ricorderò sempre.
La palla compì una parabola ed andò a conficcarsi su una punta del cancello
emettendo un soffio disperato, fine del gioco!
Ci guardammo solamente, io temevo mi uccidessero, ma non ci parlammo neanche.
Io liberai la palla dalla punta del cancello e la misi nell’angolo in cui
l’avevo trovata.
Punto
Racconto di Guido Guglielminetti http://www.guidoguglielminetti.com/