Biografia di Umberto Tozzi

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01 Giu 2014 - rain, rain, rain

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rain, rain, rain

Isabella se ne stava seduta sul suo banco. Trascorreva le ore di lezione facendo disegni a matita su un quaderno a quadretti. Era arrivata in classe da pochi giorni. Sembrava che fare amicizia non le interessasse. Preferiva starsene da sola, nel suo mondo. Solo nell’ora di Arte sembrava felice. Lo si capiva guardandola mentre preparava i colori. Era bravissima con gli acquerelli. Apriva il colore dalla scatola e lo bagnava della giusta quantità. Poi con un piccolo pennello lo stendeva sul foglio e il colore prendeva mille sfumature: ora intense per gli oggetti più vicini, ora tenui per quelli che erano posizionati più lontano. In confronto i miei disegni sembravano pozzanghere in una carta umida che iniziava a incresparsi.

Pur essendo in quella classe da ormai cinque anni, neanch’io potevo dire di avere amici. Non li sopportavo. Sempre a parlar male dei prof, salvo poi fingere interesse quando si rivolgevano a loro. Oppure era il contrario. Non l’ho mai capito. Isabella era indifferente a tutti. Non sapevo il perché. Mi bastava sapere che in questo mi assomigliava. La vedevo così diversa dalle altre. Mi piaceva.

Un giorno la professoressa ci mise in banco assieme. Potei così guardare da vicino i disegni che faceva. “Sono molto belli” le dissi cercando di rompere il ghiaccio.  Lei mi guardò e rimase in silenzio. Mi ero già pentito di quello che le avevo detto quando, per fortuna, mi sorrise. Poi iniziò un nuovo disegno. Quando lo ebbe terminato, strappò il foglio dal quaderno e me lo diede. Erano raffigurati due delfini che con un balzo erano usciti dall’acqua e stavano per rituffarsi. Due pesci fuor d’acqua, come noi due pensai.

Con il passare del tempo diventammo amici.

Un giorno, uscendo da scuola, iniziò a piovere. Eravamo entrambi in bicicletta. Dallo zaino presi un ombrello pieghevole e glielo diedi. “E tu come farai?” “Io ho il cappuccio del giubbotto, non ti preoccupare”. Non volevo che si bagnasse i capelli. Erano neri e lunghi che facevano risaltare i suoi occhi chiari come un lago di montagna. La vidi allontanarsi con il mio ombrello e rimasi lì a guardarla, mentre la pioggia iniziava a bagnarmi. Mi sentivo felice.

Il giorno dopo pioveva ancora. Isabella non si presentò a scuola. Non ci feci caso più di tanto. Neanche il giorno dopo e quelli successivi però Isabella non si fece vedere. Osservavo il banco vuoto incorniciato dalla finestra rigata dalla pioggia. Il telefono risultava spento e non sapevo cosa pensare. Volevo andare a casa sua ma mi accorsi solo allora che non le avevo mai chiesto dove abitasse. Mi feci coraggio e chiesi notizie alla professoressa. Mi rispose che si sarebbe informata.

La mattina dopo la professoressa riferì alla classe che Isabella si era trasferita all’estero. Aveva dovuto seguire il padre che si spostava per lavoro e essendo il suo unico genitore e non avendo altri parenti vicini, non c’erano state altre soluzioni perché restasse. Una doccia fredda per me. Ero arrabbiatissimo. Non ci eravamo neanche salutati e non sapevo neanche il perché. Volevo uscire dall’aula per urlare. Non avevo più speranza di rivederla. Eravamo come i cerchi paralleli nell’acqua, generati dal sasso che con rabbia avevo scagliato nel fiume vicino a casa.

Una mattina, al termine delle lezioni, il bidello mi fermò e mi diede una lettera. L’aprii, nonostante gli spintoni che continuavo a ricevere dai miei compagni che stavano uscendo. Una barca a vela che provava andare controvento. Era di Isabella. Si scusava per esser partita in quel modo, senza preavviso. Mi raccontò di suo padre, della nuova città. Mi diede dei nuovi recapiti. Sul retro c’era un disegno. Aveva rappresentato una ragazza che camminava sotto la pioggia. Solo l’ombrello era colorato, rosso come quello che le avevo dato. Rossi come gli occhi che probabilmente avevo in quel momento. Una lacrima mi cadde sul disegno che tenevo in mano, finendo lì, tra le mille gocce che lei aveva disegnato.


1.06.2014 testo e immagine by Stefano_D 


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