Biografia di Umberto Tozzi

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Quello che segue è un racconto preso dal sito di Guido Guglielminetti che, come è noto ai fan di Umberto Tozzi, è stato il suo bassista nei primi dischi. La storia riporta aneddoti interessantissimi di quel periodo della fase artistica del Nostro e la dice lunga sulle peripezie che i fantastici giovani del '51, '52 hanno dovuto attraversare prima di trovare la strada giusta per la loro vita di musicisti professionisti. La foto, inedita, che accompagna il racconto è stata gentilmente inviata ad Attimi dallo stesso Guido Guglielminetti che ringraziamo per la cortese disponibilità.



AL NIGHT...

Non eravamo sicuramente un gruppo da Night, ma secondo chi ci fece la proposta, eravamo talmente bravi che non avremmo avuto problemi. Secondo me si sbagliava.
Sto parlando del 1970 più o meno. Eravamo il gruppo di Franco Tozzi, fratello maggiore di Umberto, gli “OFF SOUND”: Mario Bosio: organo Hammond (pesava una tonnellata, non Mario, l’Hammond!) Roberto Cohen: batteria, Umberto Tozzi: chitarra e voce, Guido Guglielminetti: basso.
Il nostro repertorio abituale girava intorno ai Beatles principalmente, poi Three dog night, Rod Argent, Crosby Stills Nash and Young, Bee Gees, Brian Auger ecc. Tutta roba che con il Night non c’entrava quasi niente. Le uniche cose che noi definivamo “da Night” erano: Brasil e Summertime. Un po’ poco direi! Io proprio non ricordo chi procurò questo contratto, forse Roberto, un po’ in stile “Blues Brothers” spacciando il nostro per un gruppo in grado di intrattenere la spettabile clientela di un Night club per più di tre ore. Ma quando mai!!! Comunque andammo. Peccato non ricordi come si chiamava il Night club, magari c’è ancora.
Il posto era immerso nella nebbia della profonda Brianza, intorno, oltre alla nebbia stessa non c’era nulla. Credo che tutti i lavoratori del Night, forse anche le signorine, risiedessero lì. Sicuramente noi sì. Il nostro impegno sarebbe stato per quindici giorni.
“E ora che cazzo ci facciamo qui per quindici giorni?”
Voi non potete immaginare che cosa fosse quel posto, vorrei essere uno scrittore per potervelo descrivere, non lo sono quindi dovrete lavorare molto di fantasia, tenete presente che nella realtà era molto peggio di quanto riuscirò a descrivere.
 
Periferia di Milano, dove non è più città ma non è ancora campagna, dove “...le fabbriche non mettiamole qua, è troppo triste, poi nessuno viene più a laurà, e quelli che ci vengono poi si suicidano..” La nebbia della notte spariva verso le undici del mattino e quella del pomeriggio/sera/notte, saliva alle 11.15.
In quel quarto d’ora di luce purtroppo si vedeva bene il posto in cui stavi, perciò pregavi tornasse presto la nebbia a nascondere tutto!!!
Noi arrivammo col furgone da Torino verso le 11.00. Non fu facile trovare quel posto, stiamo parlando dell’era “pre-tomtom”, ma comunque nessun navigatore ci avrebbe mai portato lì. Abbiamo chiesto in qualche bar, strada facendo, per fortuna lo conoscevano tutti!! Quindi dopo un po’ di tentativi lo abbiamo trovato.
Simpatico il proprietario!!! Ci informò subito circa le regole severissime che vigevano in quel posticino: Non potevamo avere contatti “...di nessun tipo” con gli altri lavoratori del Night, soprattutto con  le signorine naturalmente, ma neanche con i camerieri!! E non avremmo potuto portare nessuno. Sai che disgrazia! E chi mai avrebbe avuto il coraggio di portare qualcuno in un posto del genere!
Ci assegnò una stanza con quattro letti e ci mostrò il “LOCALE” come lo chiamava lui, maiuscolo!!! Bene...che dire? Una cantina, con quelle poltroncine orribili a forma di poltroncine da Night alcune rosse altre blu, Il pavimento era appiccicoso in modo imbarazzante. Io chiesi sottovoce a Roberto, il più grande di noi, come mai il pavimento fosse così appiccicoso, ma lui mi disse:”...lascia perdere”.
Ora sono grande e ancora non so perché fosse appiccicoso, ma non lo voglio più sapere.
Per fortuna il palco sul quale avremmo piazzato gli strumenti non era troppo piccolo e ci permetteva di sistemarli in modo adeguato!! Peccato che la scala per arrivarci fosse strettissima e portare giù gli strumenti fu un’impresa estrema. Avremmo voluto uccidere Mario e suonare in tre, ma ci fece pena, anche perché aveva fatto un sacco  di debiti per comprarsi l’Hammond che costava tanti soldi (naturalmente i debiti erano dei genitori, ma non era comunque un buon motivo per ucciderlo, o forse si?).
Un imperativo del posto era: non girare assolutamente per il “LOCALE” nelle pause “...mi raccomando brevi”. Dovevamo stare dietro al palco, il più possibile nascosti alla vista.
Iniziavamo a suonare verso le 10.00 mi pare, e continuavamo  fino alle 2/3 del mattino. Superato un primo momento di imbarazzo dovuto più che altro ai volumi, suonavamo troppo forte e fummo subito minacciati dal simpatico proprietario, nessuno si accorse mai che facevamo sempre praticamente gli stessi 10/11 pezzi in modi diversi, Umberto cantava in perfetto inglese da Night, cioè quella lingua finta che non dice assolutamente nulla ma che dell’inglese imita il suono, un po’ come fa Celentano ancora oggi, Roberto alla batteria non faceva altro che spazzolare il rullante ed io con i toni chiusi facevo la parodia del walking bass con note scelte a caso di volta in volta.
I signori che frequentavano il prestigioso LOCALE non credo si siano mai accorti che c’era un gruppo che suonava, quindi mai nessuno si è lamentato.
Dal palchetto in cui stavamo noi a suonare si vedeva solo la piccola pista rotonda sulla quale qualche volta capitava ci fosse un anziano ragioniere, un metro e sessanta per un metro e sessanta abbarbicato intorno ad una signorina vestita poco e molto sorridente. Intorno alla pista c’era la penombra, per cui non ho mai capito se oltre all’occasionale ragioniere ci fosse mai qualcun altro in quel Night club.
L’odore è la cosa che non dimenticherò mai! Era Champagne (si fa per dire) misto a moquette sporca di cane bagnato e sudore di vecchio con l’alitosi. Spero di aver reso l’idea. Quella era una cripta, altro che “LOCALE”, lì l’aria non entrava neanche avesse voluto offrire una bottiglia a tutti quanti!
Normalmente finito di suonare e saliti in camera, perché solo quello potevamo fare, ci facevamo un pokerino prima di dormire e si facevano quasi sempre le 5/6 del mattino. Il grosso problema erano i pomeriggi. La cripta ( Il locale) era chiusa, quindi non si poteva suonare, lì attorno non c’era niente oltre la nebbia, quindi non facevamo altro che aspettare la sera. Finché un giorno….
A parte quanto ho scritto finora non ricordo nient’altro di quel periodo; come fosse la camera in cui dormivamo, dove mangiassimo cosa, non lo so più.
Il posto era una casa di un paio di piani credo, ma a parte la cantina, pardon “IL LOCALE” non ricordo come fosse fatta dentro. So che fuori aveva un cortile abbastanza grande, cintato e chiuso da un cancello con le punte e questo lo ricordo molto bene!
Era da una settimana che eravamo lì. Ormai non ci parlavamo neanche più da quanto eravamo abbruttiti, secondo il nostro orologio biologico era passato già un mese, ormai pensavamo che da lì non ce ne saremmo andati mai più perché in realtà eravamo prigionieri, oppure perché eravamo morti e quello era il Purgatorio.
Quel giorno usciti in cortile scoprimmo che c’era il sole. Fermi tutti! C’era il sole è un’espressione un po’ forte, diciamo che la nebbia si era diradata un po’ e c’era una strana luminescenza che faceva pensare che il sole da qualche parte ci fosse ancora.
Ma questo bastò per ridarci un po’ di entusiasmo e come premio per il nostro ritrovato buonumore trovammo, in un angolo, una palla.
 
Io non lo so se chi legge può rendersi conto di quanto quella scoperta ci riempì di entusiasmo, in un attimo dimenticammo tutto lo squallore che ci circondava.
Due contro due, i giubbotti a terra a delimitare una porta unica e via!!!
Do il primo calcio, fui proprio io, lo ricorderò sempre.
La palla compì una parabola ed andò a conficcarsi su una punta del cancello emettendo un soffio disperato, fine del gioco!
 
Ci guardammo solamente, io temevo mi uccidessero, ma non ci parlammo neanche. Io liberai la palla dalla punta del cancello e la misi nell’angolo in cui l’avevo trovata.
 
Punto


Racconto di Guido Guglielminetti            http://www.guidoguglielminetti.com/

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