Biografia di Umberto Tozzi

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ECCOMI QUI, SE DEV'ESSERE SIA

La domanda mi martella in testa, insopportabile come goccia su goccia di un rubinetto che perde. Cosa le dico?  Fuori dal finestrino c’è un tappetto di nuvole. Non avevo mai preso un aereo. Volare mi ha sempre terrorizzato. Questo volo è la mia Canossa. Sto andando a Londra per incontrare Lisa. Devo ricominciare con lei. L’hostess mi offre una bottiglietta d’acqua. Vorrei bere altro, magari un bicchiere riempito a metà di  quel coraggio che non ho.

   Il mio vicino di posto se ne sta tranquillo a rigirare carte. Meglio così. Non si accorgerà,  lo spero, del mio guardare l’orologio continuamente mentre affondo le dita sui braccioli, rilassato come sulla poltrona di un dentista. Nelle cuffie passa “I’m like a bird”. L’avevo messa in una raccolta di canzoni che mi sono portato per il viaggio. Cosa le dico?

   L’atterraggio mi riporta  a un ritmo cardiaco regolare. Seguo il flusso delle persone, leggo cartelli, getto biglietti, ne prendo altri. Leggo i display, salgo e scendo scale mobili, attraverso porte scorrevoli finché la metropolitana mi sputa fuori dalla terra. Capolinea. Cosa le dico?

   Avevo sempre desiderato essere qui  a Londra con Lisa. Immaginavo lei che mi veniva a prendere all’aeroporto e poi in giro assieme. Invece sono qui da solo. Mi guardo attorno e osservo le cose come si guarda una foto su un foglio accartocciato. E a proposito di fogli, mi ricordo di quello che tengo piegato in quattro nel portafoglio. Ci sono scritte le 13 regole che avevamo concordato prima che partisse. Servivano a tenerci insieme anche se distanti. Chissà se lei ha conservato la sua copia. Le avevamo scritte ognuno su una pagina di quaderno che poi ci siamo scambiati. È rimasto ancora l’odore delle sue sigarette mentre scriveva con la sua biro nera: è la sua aria che ho respirato standole vicino. Rileggo le regole che non ho rispettato: sono scritte con la sua calligrafia e la cosa mi fa più male. Cosa le dico?

   Le telefono? Le parole rimangono in gola. Ferme come un passero che aspetta un colpo di vento per volare via. Ho paura di sentire la sua voce. Ho paura che cambi tono, che mi dica che ci ha ripensato e  che tutto è finito. Vorrei vederla, farle sapere che, nonostante tutto, ci sono ancora e sono qui. Magari succederà che non riuscirò a dirle nulla ma lei capirà, guardandomi, come ha fatto altre volte e poi ci abbracceremo. Scrivo, cancello, riscrivo, cancello. Mi sembrano tutte frasi sbagliate. Allora mando un messaggio vuoto con la mia posizione su Google maps.

  Trovo una panchina e mi siedo. Osservo i palazzi che stanno nello sfondo, nascosti dal verde del parco, il cielo che non promette niente di buono e  il viavai delle persone che passeggiano. Sono le pareti, il soffitto e il pavimento della mia sala d’attesa.

In memoria di Giancarlo Bigazzi (5/09/1940 - 19/01/2012)


Stefano_D 19/01/2016


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