Biografia di Umberto Tozzi

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Le Polaroid di Stella

Tutto era iniziato da una richiesta di Stella, la figlia quindicenne, fan dei Queen. Gli chiese se poteva acquistare la discografia della band inglese che veniva offerta in edicola in uscite quindicinali: un anno e mezzo per completarla, 650 euro la spesa complessiva. Convenne che, a fronte di un possibile altro epilogo, ad esempio che diventasse una fan di Sfera Ebbasta o altre derive trap di profondità similari, la richiesta risultasse congrua. Acquistare vinili, un’operazione cessata all’inizio degli anni 90, fu il primo passo. Nei mercatini dell’antiquariato successe che una domenica di fine estate si era fermato presso la bancarella dei rivenditori di dischi. Questa volta però, invece di curiosare soltanto, sfogliando il raccoglitore, si soffermò su due Lp di Battisti. Il primo era “La batteria, il contrabbasso, ecc..” con l’iconica copertina di Cesare e Wanda Monti, che avrebbero ritratto anni dopo anche l’idolo musicale dei suoi quindici anni nel cavalcavia della stazione di Porta Garibaldi a Milano. L’album si sarebbe chiamato “Invisibile”, era il 1987 e il vinile si avviava al tramonto. Nella copertina del 1975, Battisti era immortalato mentre, di corsa, attraversava una pozzanghera, artificialmente resa abbondante con una copiosa innaffiata, generando schizzi d’acqua sporca che rimasero per sempre sospesi in quella iconica foto. Battisti, rimasto a lungo con i vestiti inzuppati, si beccò la febbre il giorno dopo. L’altro Lp, che attirò la sua attenzione era “Una giornata uggiosa”, ultimo capitolo della coppia Battisti-Mogol, che includeva quel capolavoro de “Il nastro rosa”. Un brano questo che gli era sempre piaciuto. Uscito nel 1980, venne ascoltato più volte in un periodo dove l’aggettivo rosa nei titoli delle canzoni sembrava essere in voga. Ricordava di aver letto che l’assolo di chitarra elettrica era stato registrato a Londra nel giro di un’ora: Phil Palmer arrivò in studio una mattina, mise le cuffie, ascoltò la base, suonò la sua parte. Poi salutò tutti perché aveva un appuntamento dal dentista prima di mezzogiorno: buona la prima che venne affidata così alla storia. Prese quei due LP. Il secondo passo fu considerare l’acquisto di un nuovo impianto stereo. Il vecchio compatto della Philips, ricevuto in regalo nel settembre del 1980 come controfferta unilaterale alle reiterate richieste di un ciclomotore, non era più in funzione. Sfruttatissimo, aveva fatto il suo dovere diffondendo le composizioni di Bigazzi/Tozzi ad un volume appena al di sotto della soglia di distorsione sia nella sua stanza, sia, nella bella stagione, nelle pertinenze dei vicini. Ma quale giradischi prendere? Scartata l’ipotesi di un acquisto online per evitarereclami per eventuali malfunzionamenti in una modalità che escludeva il contatto di persona, decise di andare in un centro commerciale. Mise gli occhi su un giradischi Marley, un marchio giamaicano creato dal figlio di Bob, che proponeva una apparecchiatura con materiali sostenibili: struttura in legno e parti in plastica riciclata. Poteva essere una buona idea e mentre attendeva che qualche commesso si premurasse di avvicinarlo, consultò sul telefonino caratteristiche e recensioni. Ora, siccome quello che aveva letto gli aveva fatto insorgere qualche dubbio e i commessi sembravano in tutt’altro indaffarati rispetto alla mission del customer care anche se in quel momento non c’era nessuno oltre a lui, decise di uscire così com’era entrato: a mani vuote. Se doveva prendersi un impianto decente era il caso di rivolgersi ad un negozio specializzato. Lo trovò fuori provincia, a mezz’ora di strada dopo una ricerca su Google maps. Scrisse una mail. Chiese un’offerta per un giradischi con relativo sistema di diffusione fissando un budget cap a 600 euro. A stretto girò arrivò la risposta con il preventivo: 650 euro un impianto decente, 530 un impianto con caratteristiche minori. Fu così che si arrivò all’epilogo: andò a prenderlo, lo sistemò sull’apposito mobiletto, e iniziò a connettere tutti i collegamenti. Le casse trovarono posto tra i ripiani della libreria e si concentrò sul bilanciamento del braccio del giradischi con una accuratezza da farmacista d’altri tempi. Venne il momento della prova. Il candidato fu individuato nel primo disco acquistato oltre quarant’anni fa: il “Poste ‘80” di Umberto Tozzi. Lo mise sul piatto e iniziò quella magia per la quale l’ascolto non era rilegato ad un sottofondo mentre si faceva altro, ma l’attenzione alle canzoni divenne assoluta, quasi liturgica un ascolto che chiede tempo, come per la lettura di un libro. Ritrovò fruscii dimenticati e parole mai scordate: incise a suo tempo nel marmo bianco dell’adolescenza, risultarono ora ancora intatte e leggibili come sottotitoli generati dalla puntina che apparivano invisibili davanti a sé. Al termine dell’ascolto ripose il disco nella custodia e nel ripetere un gesto fatto mille volte, si accorse che c’era qualcosa che non funzionava.

L’impianto era ottimo, la voce insostituibile, musica suonata da una dream band, ma... Ci pensò su e poi capì cos’era che non andava. Dunque, le tematiche. Sì, le tematiche affrontate nei testi. Ora la disoccupazione, i problemi con la compagna, il triangolo con l’amante, la condizione disagiata dove crescere, l’uso di droghe, la rapina con la pistola, il carcere, l’alcolismo, l’incidente in macchina, lei che muore tragicamente, erano tutte situazioni facilmente riscontrabili in un qualsiasi poliziesco degli anni 70 girato tra Milano e la campagna. Con ovvio contorno di pantaloni a zampa d’elefante, baffi, sigarette come noccioline e Alfa Romeo in divisa grigioverde. Tutto questo era emerso come un qualcosa di diverso, che prima non c’era, o se c’era non era così evidente. In fondo quel lavoro discografico era nato e vissuto nel clima cupo che ancora si viveva nel 1980. Mentre il “Poste ‘80” veniva registrato a Monaco, a gennaio era stato assassinato Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica e a febbraio Vittorio Bachelet. A maggio, quando il disco uscì, venne assassinato Walter Tobagi e mentre quelle canzoni erano portate in tournée, a Bologna il 2 agosto, avvenne la strage alla stazione. Si era quindi verificata la situazione che le maggior parte di quelle canzoni scritte in quel periodo, non viaggiasse più parallelamente con il tempo attuale dell’ascolto. E paradossalmente il brano che sembrava funzionare meglio ora era la hit, quello dove non si raccontava nulla, dove tutto rimaneva sospeso nel classico nonsense di impronta bigazziana, nei flash raccontati con parole ricercate per il loro suono, come l’utilizzo dell’allitterazione, qui già nel titolo. Gli rimase quella sorta di disappunto mentre il “Poste ’80” prendeva il suo posto tra “Gloria” e “in concerto” nel ripiano sottostante: il giradischi come macchina del tempo funzionava quindi con questi limiti che faceva emergere? Ed era dunque destinato, per evitare questa sensazione, a fare la stessa fine della Instax di sua figlia Stella, una riesumazione della Polaroid ma che ora riposava, dopo un breve utilizzo, in qualche parte della casa? E avrebbe affascinato una quindicenne il giradischi, una tecnologia per lei nuova, un “nuovo antico” verrebbe da dire? Stava facendo queste riflessioni quando arrivò una notifica su telefono da parte di app di e-commerce: “Breakfast in America” originale del 1979 dei Supertramp, trovato in condizioni EX+, era stato spedito dall’Inghilterra. Osservò sua figlia mentre ora fissava ora il suo disco della Band girare. Si convinse che la macchina del tempo avrebbe funzionato ancora, anche come catalizzatore di dischi altrui. Dischi scaduti allo status di meri oggetti che altri non volevano più e per qualche motivo, finiti in mani di qualcuno che voleva disfarsene. Una cosa era certa: il corpus dei vinili di Umberto avrebbe avuto ora una cornice più adeguata. In fondo era la casa di una persona con l’indole del collezionista e la nuova generazione che abitava con lui, stava promettendo bene.


26.11.2023 by Stefano Dalto Foto di Domenico Lo Turco



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